Detenzione domiciliare ed ingiustificata assenza: dichiarato parzialmente illegittimo l’art. 47-ter dell’Ordinamento Penitenziario.
Corte Costituzionale, 12 giugno 2009, n. 177
In tema di detenzione domiciliare ed ingiustificata assenza dal domicilio la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 47-ter, comma 1, lettera a), seconda parte, e comma 8, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui non limita la punibilità ai sensi dell’art. 385 c.p. al solo allontanamento che si protragga per più di dodici ore, come stabilito dall’art. 47-sexies, co. 2, della suddetta legge n. 354 del 1975, sul presupposto, di cui all’art. 47-quinquies, co. 1, della medesima legge, che non sussista un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti.
SENTENZA
Nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 47-ter, commi 1 e 8, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), promosso dalla Corte di cassazione con ordinanza del 17 luglio 2008, iscritta al n. 329 del registro ordinanze 2008 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 44, prima serie speciale, dell’anno 2008.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 20 maggio 2009 il Giudice relatore Gaetano Silvestri.
Ritenuto in fatto
1. ? Con ordinanza depositata il 17 luglio 2008, la Corte di cassazione ha sollevato, in riferimento all’articolo 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 47-ter, commi 1 e 8, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui «non limita la punibilità ai sensi dell’art. 385 c.p. al solo allontanamento dal domicilio che si protragga per più di dodici ore».
La rimettente è investita del ricorso avverso una sentenza di condanna per evasione, deliberata nei confronti di una donna già ammessa al regime di restrizione domiciliare in quanto madre di prole di età inferiore a dieci anni, per aver violato l’orario di rientro nell’abitazione di «soli 40 minuti».
La Corte di cassazione riferisce che la difesa della ricorrente ha eccepito l’irrilevanza penale del fatto, in forza dell’applicazione analogica dell’art. 47-sexies, comma 1, della citata legge n. 354 del 1975, il quale, con riguardo alla detenuta ammessa alla misura alternativa della detenzione domiciliare speciale, esclude che l’allontanamento non autorizzato dal domicilio per un tempo inferiore alle dodici ore integri la fattispecie punita dall’art. 385 del codice penale.
In subordine, la stessa ricorrente ha proposto questione di legittimità costituzionale della previsione contenuta nei commi 1 e 8 dell’art. 47-ter della legge n. 354 del 1975, in riferimento all’art. 3 Cost., per l’ingiustificato deteriore trattamento riservato alla condotta di allontanamento della madre che si trovi in regime di detenzione domiciliare «ordinaria» rispetto a quella che si trovi nella situazione, in tutto analoga, della detenzione domiciliare speciale.
La rimettente esclude di poter procedere all’invocata applicazione analogica della più favorevole disciplina prevista dall’art. 47-sexies della legge n. 354 del 1975, in quanto il comma 8 del precedente art. 47-ter inequivocabilmente qualifica come delitto di evasione la condotta di allontanamento dal domicilio nel quale il condannato si trovi in stato di detenzione (è richiamata in proposito la sentenza n. 173 del 1997 della Corte costituzionale), mentre condivide il dubbio di legittimità costituzionale prospettato dalla difesa e solleva la relativa questione, evidenziando che dall’accoglimento della stessa discenderebbe l’irrilevanza penale del fatto ascritto alla ricorrente.
La Corte di cassazione precisa anzitutto che non v’è contraddizione tra l’odierno atto di promovimento e la precedente pronuncia (Cass. penale, sentenza n. 31995 del 2003), di segno contrario, con la quale è stata ritenuta manifestamente infondata, in relazione all’art. 3 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 47-ter della legge n. 354 del 1975 «nella parte in cui determinerebbe una ingiustificata disparità di trattamento sia nei confronti del condannato ammesso al regime di semilibertà, sia nei confronti della madre di figli infradecenni ammessa alla detenzione domiciliare, per i quali opera un regime differenziato di sanzioni». Nella richiamata decisione, infatti, erano poste a raffronto le norme contenute rispettivamente negli artt. 47-ter e 51 della legge n. 354 del 1975, e la fattispecie in concreto esaminata non riguardava un caso di detenzione domiciliare di madre di prole infradecenne.
Nella vicenda odierna, invece, la ricorrente è una detenuta già ammessa alla misura della detenzione domiciliare di cui all’art. 47-ter, comma 1, lettera a), seconda parte, della legge n. 354 del 1975, e il termine di raffronto è costituito dalla disciplina dettata per la detenzione domiciliare speciale, misura alternativa riservata alle madri con prole infradecenne le quali, avendo riportato condanne superiori a quattro anni di reclusione, non possono beneficiare della misura della detenzione domiciliare ordinaria.
La Corte di cassazione evidenzia come, a fronte della identica finalità delle due misure alternative, volte a «favorire un proficuo rapporto tra madre e figlio, al di fuori della restrizione carceraria», risulti privo di giustificazione il differente, più severo trattamento previsto dal comma 8 dell’art. 47-ter della legge n. 354 del 1975 per la condotta di allontanamento non autorizzato della madre ammessa alla detenzione domiciliare “ordinaria”, che integra immediatamente il delitto di evasione, senza il margine di tolleranza previsto nella disciplina della detenzione domiciliare speciale.
La disparità di trattamento appare alla rimettente ancor più ingiustificata in quanto la misura della detenzione domiciliare speciale si caratterizza per una situazione «soggettivamente più “critica” rispetto a quella di cui all’art. 47-ter e, quindi, non appare meritevole di un più benevolo trattamento sanzionatorio in relazione alle condotte “trasgressive”».
Il differente trattamento, infine, non potrebbe trovare giustificazione neppure nella previsione, contenuta nel comma 3 dell’art. 47-quinquies della legge n. 354 del 1975, secondo cui il tribunale di sorveglianza è chiamato non solo a fissare le modalità di esecuzione della misura, in base ai criteri indicati nell’art. 284 del codice di procedura penale, ma anche a precisare il periodo di tempo che la detenuta ammessa alla detenzione domiciliare speciale può trascorrere all’esterno. La richiamata disposizione, secondo la Corte rimettente, avrebbe il solo scopo di fissare «un limite generale invalicabile per le eventuali autorizzazioni di cui al comma 3 dell’art. 284 c.p.p.», e in ogni caso non risulterebbe collegabile in alcun modo al disposto del comma 1 dell’art. 47-sexies della legge n. 354 del 1975, che prevede conseguenze soltanto disciplinari per l’allontanamento non autorizzato inferiore alle dodici ore.
2. – Con atto depositato in data 11 novembre 2008 è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile o, comunque, infondata.
La difesa erariale eccepisce in primo luogo la «mancata descrizione, da parte del giudice remittente, della fattispecie del giudizio a quo», con conseguente carenza di motivazione sulla rilevanza (sono richiamate le ordinanze numeri 447, 408 e 243 del 2007 e n. 376 del 2006 della Corte costituzionale). In particolare, l’Avvocatura segnala come l’ordinanza di rimessione riporti, in modo sintetico, «la sola prospettazione della ricorrente, impedendo così qualsiasi verifica in ordine alla effettiva riconducibilità della posizione processuale della parte interessata all’uno o all’altro degli istituti processuali evocati».
Un ulteriore profilo di inammissibilità si connetterebbe al fatto che l’eventuale accoglimento della questione «sfocerebbe in una pronuncia additiva a contenuto non costituzionalmente obbligato» (sono richiamate le ordinanze n. 233 del 2007 e n. 210 del 2006).
Nel merito, l’Avvocatura generale evidenzia come l’ammissione della detenuta madre di prole infradecenne alla misura della detenzione domiciliare speciale sia subordinata alla formulazione da parte del tribunale di sorveglianza di una prognosi favorevole sul futuro comportamento dell’interessata (art. 47-quinquies, comma 1), prognosi che invece non sarebbe richiesta ai fini dell’ammissione alla detenzione domiciliare “ordinaria”, cui si accederebbe «senza alcun previo apprezzamento in punto di esigenze preventive». Tale diversità, riguardante i presupposti di ammissione alle due misure, sarebbe sufficiente a giustificare la differente rilevanza, anche agli effetti penali, che il legislatore attribuisce ad «eventuali allontanamenti dal domicilio che si protraggano oltre l’orario consentito».
Considerato in diritto
1. ? La Corte di cassazione ha sollevato, in riferimento all’articolo 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 47-ter, commi 1 e 8, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui «non limita la punibilità ai sensi dell’art. 385 c.p. al solo allontanamento dal domicilio che si protragga per più di dodici ore».
2. – La questione è fondata nei termini di seguito specificati.
2.1. – Secondo il giudice rimettente, vi sarebbe identità di ratio tra le due discipline poste a confronto, e cioè il censurato art. 47-ter, nella unitaria considerazione dei commi 1 e 8, da una parte, e gli artt. 47-quinquies e 47-sexies della stessa legge n. 354 del 1975, dall’altra. In entrambi i casi il legislatore avrebbe inteso «favorire un proficuo rapporto tra madre e figlio, al di fuori della restrizione carceraria». Il punto di equilibrio tra l’esigenza di tutela sociale sottesa alla necessaria esecuzione di una pena inflitta in seguito alla commissione di un reato e l’interesse dei bambini a giovarsi dell’affetto e delle cure materne è stato individuato nella possibilità di concedere alla madre di prole di età inferiore ad anni dieci, con lei convivente, la possibilità di espiare la pena nella propria abitazione. Tale finalità generale è stata perseguita nella legislazione con due distinte discipline, succedutesi nel tempo.
La prima disciplina, introdotta nell’ordinamento penitenziario dalla legge 10 ottobre 1986, n. 663 (Modifiche alla legge sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), e successivamente modificata dalla legge 27 maggio 1998, n. 165 (Modifiche all’art. 656 del codice di procedura penale ed alla legge 26 luglio 1975, n. 354 e successive modificazioni), prende in considerazione – nel testo attualmente vigente – il caso della madre di prole di età non superiore ad anni dieci, con lei convivente, sul presupposto che la pena da scontare abbia durata pari od inferiore a quattro anni, anche se costituente parte residua di maggior pena.
La seconda misura (definita dal legislatore «detenzione domiciliare speciale») è stata introdotta dalla legge 8 marzo 2001, n. 40 (Misure alternative alla detenzione a tutela del rapporto tra detenute e figli minori) e – nel testo vigente – è disciplinata dall’ordinamento penitenziario con gli artt. 47-quinquies e 47-sexies. Tale normativa prende in considerazione i casi in cui non ricorra il presupposto di cui all’art. 47-ter, vale a dire che la pena da espiare non sia superiore a quattro anni, ed estende agli stessi la possibilità della concessione della detenzione domiciliare, allo scopo di «ripristinare la convivenza con i figli», purché la detenuta abbia espiato almeno un terzo della pena, ovvero dopo l’espiazione di almeno quindici anni, nel caso di condanna all’ergastolo.
2.2. – Come si può notare agevolmente, la finalità perseguita dal legislatore, con le due discipline, è identica, anche se diverse sono le fattispecie regolate. Nell’intento di perfezionare ed estendere la tutela dei minori in tenera età, visti nel loro essenziale rapporto con la madre, il legislatore ha ritenuto – con l’intervento attuato nel 2001 – di includere nel beneficio anche le condannate per delitti gravi, cui manchino più di quattro anni per la completa espiazione della pena. Il senso dell’estensione si rinviene nel rilievo preminente dell’interesse dei bambini, che non devono essere eccessivamente penalizzati dalla differenza di situazione delle rispettive madri in riferimento alla gravità dei reati commessi ed alla quantità di pena già espiata. Una completa parificazione di tutti i casi è stata tuttavia esclusa; infatti restano fuori dalla possibilità di ottenere la detenzione domiciliare le madri detenute che abbiano da scontare più di quattro anni e non abbiano espiato almeno un terzo della pena (o quindici anni, nel caso di ergastolo).
Mediante le due forme indicate di detenzione domiciliare, di cui la seconda integra e completa la prima, il legislatore ha perseguito un ragionevole bilanciamento tra le diverse esigenze ricordate al paragrafo 2.1, in una visione più attenta alla finalità di tutela delle persone deboli come i minori.
2.3. – Nell’introdurre la disciplina più recente, lo stesso legislatore ha subordinato la concessione del beneficio alle madri condannate per delitti anche molto gravi, che comunque abbiano davanti a sé un periodo di pena da espiare superiore a quattro anni, alla condizione che non sussista «un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti» (art. 47-quinquies, comma 1). Tale condizione non è prevista esplicitamente nell’art. 47-ter, che regola la detenzione domiciliare «ordinaria», sia per l’ipotesi della madre di prole in tenera età – che viene in rilievo nel presente giudizio – sia per altre fattispecie elencate nella medesima disposizione.
Un ulteriore profilo di differenziazione è dato dall’art. 47-sexies, comma 2, che introduce una disciplina parzialmente diversa da quella valevole per la detenzione domiciliare “ordinaria”, in quanto l’applicabilità dell’art. 385, primo comma, del codice penale (che prevede il reato di evasione) è limitata al caso in cui l’assenza della condannata dal proprio domicilio si protragga, senza giustificato motivo, per un tempo superiore a dodici ore. Per assenze di durata inferiore il comma 1 dello stesso articolo 47-sexies dispone che la contravveniente possa essere proposta per la revoca della misura.
Il comma 8 dell’art. 47-ter prevede invece semplicemente che il reato di evasione debba essere contestato per qualsiasi ipotesi di allontanamento dall’abitazione. Di conseguenza, quando la condannata sia stata autorizzata ad allontanarsi temporaneamente, qualsiasi pur minimo ritardo integra gli estremi del reato di evasione (come è avvenuto nel caso che ha dato luogo al giudizio a quo, in cui il ritardo è stato di circa quaranta minuti). In questo senso si è orientata l’interpretazione giurisprudenziale dominante e da tale presupposto ermeneutico muove il giudice rimettente.
3. – Occorre anzitutto considerare la stretta compenetrazione tra la previsione meno rigorosa, quanto all’ingiustificato ritardo, contenuta nella normativa, successiva nel tempo, dettata per la detenzione domiciliare speciale e l’ipotesi specifica della madre di prole di età non superiore a dieci anni. La legge n. 40 del 2001 ha come unico oggetto le misure alternative alla detenzione a tutela del rapporto tra detenute e minori e recepisce, nel contesto di un intervento legislativo mirato su tale specifica finalità etico-sociale, un’esigenza naturalmente connessa alle attività rese indispensabili dalla cura dei bambini, che possono imporre l’allontanamento dal domicilio e che risentono inevitabilmente delle contingenze e degli imprevisti derivanti dal soddisfacimento dei bisogni di questi ultimi (frequenza scolastica, cure mediche, attività ludiche e socializzanti, etc.). Se non fosse consentito alla madre di sostenere i figli minori nelle loro primarie esigenze anche fuori dell’abitazione, verrebbe meno gran parte del fondamento della stessa previsione della misura alternativa alla detenzione.
Di ciò si è reso conto il legislatore del 2001, che ha introdotto un regime più flessibile per i ritardi, per i quali, specie se brevi, non sempre è possibile fornire adeguata e documentata giustificazione. La maggiore indulgenza è quindi legata alla situazione specifica della madre e del bambino e prescinde dallo status penitenziario della prima, che è stato già valutato al momento della concessione della misura alternativa. Da ciò deriva che la prognosi che non vi sia pericolo concreto che la condannata commetta altri delitti attiene alla predetta concessione, e non ha alcun collegamento con eventuali inosservanze degli orari di rientro, che invece sono da valutare in rapporto alla specifiche esigenze di cura della prole.
D’altra parte, come sopra ricordato, la disciplina della detenzione domiciliare speciale prevede che la condannata, anche nell’ipotesi di ritardi inferiori alle dodici ore, «può essere proposta per la revoca della misura». Escluso ogni automatismo, viene lasciato al giudice il compito di esaminare caso per caso – attribuendo il giusto peso all’interesse del minore – l’opportunità di sanzionare con la revoca comportamenti della condannata non giustificabili dal punto di vista della doverosa osservanza delle prescrizioni che accompagnano il regime di detenzione domiciliare.
4. – Chiarito il legame tra gli artt. 47-quinquies e 47-sexies, che si integrano a vicenda, risulta manifestamente irragionevole che la madre di prole di età non superiore ad anni dieci, che abbia da scontare una pena pari o inferiore a quattro anni, subisca un trattamento sanzionatorio, per l’ipotesi di ritardo nel rientro nel domicilio, più severo di quella che, in uguali condizioni, abbia ancora da espiare una pena di durata maggiore. Se – come s’è visto sopra – la ragione della disciplina più indulgente introdotta nel 2001 è dovuta ad una valutazione specifica delle esigenze nascenti dalla cura dei bambini, la sua mancata estensione a chi deve affrontare gli stessi problemi è priva di giustificazione. Il comma 8 dell’art. 47-ter, infatti, è dettato in via generale per tutti i condannati che si trovino nelle situazioni di cui alle lettere da a) ad e) del comma 1, che contemplano figure eterogenee e non assimilabili a quella della madre di prole in tenera età.
Quando il legislatore ha deciso di introdurre un certo margine di elasticità nella valutazione dell’inadempienza all’obbligo di rientro, ha indebitamente escluso da tale nuova e più duttile previsione –meglio adeguata alle particolari ragioni morali e sociali dell’istituto – madri che, in ipotesi, abbiano commesso reati di gravità minore, e comunque debbano scontare una pena di durata inferiore. Per questo motivo, il tertium comparationis evocato dal giudice rimettente può essere ritenuto omogeneo e pertinente, così come richiesto dalla costante giurisprudenza di questa Corte. Omogeneo, perché si tratta di situazioni identiche rispetto alle finalità perseguite dalla legge; pertinente perché la disciplina evocata in via comparativa ha il medesimo contenuto, anche se variano i presupposti per la sua applicazione. L’irragionevolezza prima illustrata investe pertanto solo uno dei presupposti, che preclude ad una parte delle madri detenute con figli minori in tenera età il godimento di un beneficio predisposto dal legislatore a vantaggio precipuo dei minori stessi.
Le disposizioni censurate devono essere pertanto dichiarate illegittime – come richiesto dal giudice rimettente – nella parte in cui non limitano la punibilità ai sensi dell’art. 385 cod. pen. al solo allontanamento che si protragga per più di dodici ore, come stabilito dall’art. 47-sexies, comma 2, della legge n. 354 del 1975.
5. – L’irragionevole mancata estensione della nuova normativa, sul margine di tolleranza del ritardo, alla precedente previsione, riguardante la detenzione domiciliare “ordinaria”, deve intendersi riferita al sistema costituito dagli artt. 47-quinquies e 47-sexies, che contengono norme simultaneamente introdotte dal legislatore, in obbedienza ad una logica unitaria e indivisibile, che, accanto ad una maggiore comprensione per le esigenze che nascono dai rapporti tra madre e figli in tenera età, pone una maggiore cautela nel richiedere, prima della concessione del beneficio, la formulazione di una prognosi di inesistenza del concreto pericolo che la condannata commetta altri delitti. Il bilanciamento tra le diverse e contrastanti esigenze si ricompone pertanto ad un altro livello, in cui si pongono in equilibrio da una parte una maggiore tutela della sicurezza sociale e dall’altra una più adeguata considerazione dei bisogni dei minori e delle attività delle madri destinate a soddisfarli. Per questo motivo, l’ampliamento di efficacia della norma evocata in comparazione deve intendersi riferito al necessario complemento della previa valutazione dell’inesistenza del rischio concreto che il soggetto ammesso alla misura possa commettere altri delitti.
Del resto, la giurisprudenza, pur in mancanza di una letterale previsione in questo senso, ha ritenuto debba ricorrere, anche nelle ipotesi di cui all’art. 47-ter, il presupposto dell’assenza del pericolo di recidiva escludendo qualsiasi automatismo nella concessione della predetta misura, sul rilievo che la ratio comune a tutte le misure alternative alla detenzione – anche quando sono ammissibili perché rientranti negli specifici limiti previsti per ciascuna di esse – è quella di favorire il recupero del condannato e di prevenire la commissione di nuovi reati (da ultimo, Cassazione penale, sentenza n. 28555 del 2008). L’implicazione logica del presupposto di cui sopra è quindi insita nell’ordinamento, da cui questa Corte desume la necessità di abbinare all’estensione della disciplina più favorevole, connessa alla detenzione domiciliare speciale, anche l’esplicita previsione della ragionevole prognosi di non recidiva.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 47-ter, commi 1, lettera a), seconda parte, e 8, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui non limita la punibilità ai sensi dell’art. 385 del codice penale al solo allontanamento che si protragga per più di dodici ore, come stabilito dall’art. 47-sexies, comma 2, della suddetta legge n. 354 del 1975, sul presupposto, di cui all’art. 47-quinquies, comma 1, della medesima legge, che non sussista un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 giugno 2009.
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